Perché fotografiamo? Cosa ci spinge a conservare gelosamente le fotografie nel nostro album o in scatole e cassetti? Cosa c'è dietro questo comportamento che è ormai così diffuso e quasi naturale?
La fotografia contiene in sé una serie così ampia di significati che la parola stessa “fotografia” sembra quasi troppo piccola, troppo breve per poter esprimere tutto ciò che rappresenta. Eppure tutto quello che c’è dietro un foglio di carta a colori o in bianco e nero è così complesso ed allo stesso tempo molto semplice, equivalente al tempo di un click. Ma è proprio in quel click che la macchina fotografica compie un piccolo miracolo: la luce viene impressa sul sensore o sulla pellicola, si trasformerà in immagine e lì resterà per chissà quanto tempo, passando per chissà quante mani.
Oggi in quasi tutte le famiglie è presente almeno una macchina fotografica, e l’idea di conservare i ricordi di eventi importanti in un album è ormai una tradizione consolidata.
Le fotografie in genere si amano fin da bambini, e portano con sé mille significati. Linda Berman, psicanalista inglese che utilizza da moltissimi anni le fotografie con i suoi pazienti, ritiene che questo amore derivi dal piacere innato di ogni essere umano nel vedersi riflesso.
I bambini sono infatti sempre affascinati dal riflesso della propria immagine, e il motivo principale è che questo riflesso (che può essere visto in una pozza d’acqua, in uno specchio, in una foto) è una vera e propria conferma della propria identità, è come se dicesse al suo proprietario: “tu esisti”.
Winnicott tutto ciò lo sapeva bene, aveva già compreso quanto ogni bambino sentisse l’esigenza vitale di rispecchiarsi, sottolineando che in principio questo meccanismo avvenisse interagendo con lo “specchio umano” per eccellenza: il volto della madre ed il suo sguardo. Una madre che guarda il proprio bambino, e lo fa senza proiettare in lui le sue aspettative e i suoi timori, è una madre che ne conferma la sua esistenza. Se così non fosse, “il bambino resterebbe senza uno specchio e per il resto della sua vita continuerebbe a cercarlo invano”(Miller, 1980).
Il principio del rispecchio vale poi per tutte le età: la fotografia ci permette di vedere ed essere visti, notati, osservati, e quindi anche compresi e ascoltati anche da adulti ed anziani.
“Quando tra le nostre fotografie ne selezioniamo alcune da mostrare agli altri, spesso scegliamo quelle che ci mostrano come vogliamo essere visti, che rispecchiano l’immagine interiore ideale di noi stessi. Quando poi mostriamo la fotografia e in questo modo la condividiamo con gli altri, abbiamo la tendenza a osservare i loro volti per vedere come reagiscono alla nostra immagine e per cercarvi riconoscimento e approvazione.” (Berman, 1997).
La fotografia ci parla allora del bisogno umano per eccellenza: il riconoscimento altrui, il bisogno dell’altro.
Non a caso proprio la fotografia rappresenta anche uno degli strumenti più efficaci di comunicazione. Ed è una comunicazione particolare quella fotografica, fatta di simboli e metafore, e diretta alla sfera emotiva più che a quella razionale e verbale. Le fotografie possono così essere un trampolino di lancio per tutti coloro che attraverso le parole non riescono a entrare in rapporto con sé stessi e con l’altro.
Soggetti con diagnosi di autismo, sindrome di Asperger, psicosi, disturbi psicosomatici, ma anche soggetti impegnati nell’elaborazione di un lutto, di un trauma, o più semplicemente tutti i bambini (che prediligono senza dubbio la comunicazione non verbale) e quegli adolescenti ed adulti inseriti in un percorso di conoscenza e crescita interiore, possono quindi decisamente utilizzare la fotografia come un canale privilegiato per comunicare a sé stessi e agli altri chi si è, quali emozioni si attraversano, quali pensieri, traendone importanti benefici.