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Archiviare che rottura...… Ehm, che passione!

 
QUANDO IL SUPPORTO È FISICO

Quanto durano?
Chi è “nato” (fotograficamente parlando) con la pellicola, sa che l’archiviazione di negativi e diapositive era (o meglio è, perché questi supporti non sono certo scomparsi) una faccenda di non facile gestione.

Occorre innanzitutto affrontare problemi di tipo fisico-chimico: tanto il supporto quanto l’emulsione – essendo materiali organici – sono soggetti a un inevitabile decadimento. Ovviamente non è possibile attenersi a regole generali, applicabili ad ogni tipo di materiale. Supporti diversi (triacetato di cellulosa o poliestere nelle pellicole moderne, ma anche vetro o nitrato di cellulosa per chi si occupa di archiviazione “storica”) richiedono cautele e trattamenti diversificati, per non parlare delle emulsioni, non solo a colori o in bianco e nero, ma anche alla gelatina, al collodio, all’albumina…
La solfurazione dell’argento metallico o lo screpolamento del collodio sono incubi che agitano il sonno degli archivisti!
I quali, per colmo di sfig… ehm, di sventura, rischiano di commettere – in perfetta buona fede – una quantità di errori difficilmente immaginabile da parte di chi non è del mestiere: ad esempio, i sali di ferro usati nei cianotipi si deteriorano in ambiente alcalino: conservarli in carte a rilascio alcalino (come si fa – correttamente – con le stampe ai sali d’argento) è il modo migliore per accelerarne la fine. Eppure molti conservatori e archivisti lo fanno, sbagliando, nella convinzione che la carta alcalina vada bene per tutto.

Le preoccupazioni dell’archivista sono condivise dai fotografi, non solo professionisti ma anche dilettanti, che vorrebbero conservare in condizioni stabili le loro immagini più belle.
Ora, se è vero che un negativo in bianco e nero correttamente trattato (correttamente trattato!) può durare fino a 300 anni, come dimostrano le prove di laboratorio, e altrettanto una stampa su carta baritata sottoposta a viraggio conservativo, lo stesso non si può dire dei materiali a colori, la cui durata “di sicurezza” non supera i venticinque anni.

Chi conserva per mestiere sa che la corretta conservazione dei supporti fisici è frutto di una catena di qualità (oggi si direbbe “filiera”) nella quale ogni elemento deve essere attentamente valutato e progettato.
Gli armadi in lamiera verniciata a fuoco sono preferibili agli armadi di legno, materiale che emette sostanze volatili derivanti dalle colle e dai mordenti usati in falegnameria; il cartone dei raccoglitori e delle scatole deve essere garantito “acid free”, e così la carta delle buste in cui sono conservate le stampe. La plastica delle buste trasparenti e dei plasticoni per le diapositive non deve contenere cloro: indicati il polipropilene e il PET (tereftalato di polietilene), controindicato il PVC (da evitare anche nei contenitori per alimenti, perché deteriorandosi libera cloro). Meglio sostituire buste in plastica e plasticoni con taschine singole o portanegativi in striscia realizzati in pergamino. Vietatissimo incollare etichette su buste e scatole o scriverci sopra con qualunque cosa che non sia una matita grassa…

Insomma, può sembrare una gran rottura, ma se non si rispettano queste regole a poco valgono le strategie – più o meno fantasiose – suggerite dai manuali per dilettanti, spesso oggetto di feroci dispute tra i fautori del telaietto con vetro contro quelli del telaietto senza vetro: al di là di queste chiacchiere da bar, i metodi di conservazione amatoriali non sono in grado di rallentare quel deterioramento dovuto allo scorrere del tempo a cui tutti i materiali organici sono soggetti. Noi compresi.
Ma che c’importa, dirà qualcuno, digitalizziamo tutto e non se ne parla più.
Sarebbe bello, ma come vedremo anche l’immagine digitale ha i suoi problemi.
Quanto detto fino ad ora riguarda – come abbiamo detto – l’aspetto fisico-chimico, cioè materiale, dell’archiviazione.

L’ordine è tutto!
Ma c’è anche un aspetto semantico, rappresentato dalla necessità di reperire rapidamente e con sicurezza l’informazione che si sta cercando. In parole più semplici, bisogna escogitare un sistema che ci permetta di trovare quella certa fotografia senza perdere delle ore in irritanti ricerche.
Ogni fotografo ha il suo, strettamente dipendente dalle sue necessità di utilizzo delle immagini: se il dilettante che fotografa i bambini ogni estate in vacanza può trovare comoda una classificazione di tipo cronologico, il fotografo sportivo avrà sicuramente bisogno di un altro tipo di ordinamento.
Inoltre, poiché negativi, stampe e diapositive sono supporti fisici e non virtuali, il criterio di classificazione scelto deve corrispondere a un ordinamento fisico dei materiali: una necessità che richiede tempo, attenzione e puntiglioso rispetto delle regole che si è scelto di seguire. Come ben sanno i bibliotecari e gli archivisti, ciò che finisce fuori posto diventa di fatto irreperibile. Come dire che si perde per sempre.

Copie uniche
Un altro aspetto problematico dei supporti fisici è la loro intrinseca unicità. Ogni negativo è un esemplare unico, e così ogni diapositiva. E’ vero che dal negativo si possono ricavare più stampe, ma l’originale in quanto tale è irripetibile.
Al punto che – quando lavoravo con le diapositive a colori – mi costringevo ad effettuare più scatti dello stesso soggetto: uno per l’archivio, uno per l’agenzia, uno perché potrebbe servire per un catalogo, uno perché non si sa mai…
Con il rullo 120 da dodici pose facevo tre fotografie e poi ero costretto a sostituire il magazzino portapellicola: negli anni ho collezionato più magazzini Hasselblad che fidanzate!

I PIXEL, INVECE…

I supporti ottici: una falsa sicurezza
Con il digitale tutto questo è – o dovrebbe essere – superato. Si fotografa in Raw, si conserva l’originale e si “tirano” le copie che servono nel formato di volta in volta più utile.
Tutto semplice?
Non proprio, e vediamo perché.
Innanzitutto proviamo a ribadire un concetto che – ben noto al professionista – lo è molto meno al dilettante, e cioè che contrariamente a quanto comunemente si crede (e a quanto il mercato tende a far credere) la fotografia digitale non è affatto più semplice, più economica e più duratura dell’immagine argentica.
Ma c’è una cosa molto più importante da sapere, e cioè che la fotografia digitale ha bisogno di molte, molte cure. In caso contrario rischia di scomparire.
Il rischio coinvolge tanto i supporti di registrazione quanto i formati di file.
Un CD può durare una decina d’anni, poi diventa soggetto a quella che io chiamo “sindrome della caraffa della nonna”. Ricordate la caraffa di plastica trasparente che usava la nonna per misurare la farina? Forse l’abbiamo ancora, in un angolo della credenza, ma non è più trasparente: il tempo, il calore e i frequenti lavaggi l’hanno opacizzata. Lo stesso avviene, col tempo e con l’usura, ai supporti a lettura ottica: il policarbonato che li protegge si opacizza e il raggio laser non è più in grado di leggere le informazioni che vi sono registrate.

Se poi sono masterizzati in proprio, i CD e i DVD rischiano di durare ancora meno, soprattutto se vengono utilizzati come supporti di lavoro. E’ vero che alcuni test di laboratorio garantiscono ai DVD masterizzati una durata che può raggiungere i cento anni, ma è anche vero che tali test presuppongono una conservazione ottimale, al riparo dalla polvere, con temperatura e umidità costanti. L’esperienza quotidiana dei fotografi fornisce dati drammaticamente discordanti!
Al punto che i professionisti dell’archiviazione concordano nel preferire ai supporti ottici i supporti magnetici, cioè gli hard disk.

Uno, due, molti hard disk
Ovviamente gli hard disk possono rompersi, smagnetizzarsi o essere danneggiati da improvvisi sbalzi di tensione. Per questo è preferibile moltiplicare l’informazione registrandola su più supporti, meglio se su due unità che lavorano in parallelo (nel gergo tecnico si dice in mirroring, cioè “a specchio”) e che registrano entrambe (contemporaneamente) gli stessi dati.
L’hard disk deve garantire una sufficiente capacità di memorizzazione, una sufficiente velocità in lettura e in scrittura e una buona sicurezza dei dati, minimizzando il rischio di perdita di informazioni. Nei dischi più recenti sono utilizzate tecnologie atte a soddisfare tutti questi requisiti.
In particolare la tecnologia RAID ( Redundant Array of Independent Disks ) si rivela oggi particolarmente adatta a garantire un’ottimale conservazione dei dati. In base a questa tecnologia, due o più HD identici lavorano in modo sincrono secondo diverse configurazioni.
La configurazione detta RAID 0 (o striping), lega tra loro diversi dischi permettendo al sistema di “vederli” come un’unica unità. Lo scopo è quello di aumentare la capacità di memorizzazione senza dover distribuire le informazioni su unità differenti.
La modalità RAID 1 (il mirroring di cui abbiamo già fatto cenno) fa sì che due dischi siano la copia speculare l’uno dell’altro: nel caso in cui si verifichi un danno fisico a uno dei dischi, o una perdita di dati, o un errore in scrittura/lettura, il sistema può recuperare le informazioni registrate sull’altro disco. Vantaggio: massima sicurezza dei dati. Svantaggi: maggiore lentezza e notevole utilizzo di spazio: due HD da un Giga l’uno collegati in mirroring vengono visti come un’unica unità da un Giga.
Altre configurazioni, come il RAID 0+1 o il RAID 5, consentono ulteriori controlli sulla sicurezza dei dati.
Ovviamente c’è sempre il rischio che un incendio, un’alluvione o dei ladri devastino la sede dove sono conservati gli hard disk.
Così, se ci tenete al vostro archivio, dovrete fare una copia di sicurezza su un ulteriore hard disk che porterete sempre con voi, o che metterete al sicuro in una cassetta di sicurezza, o ancora che nasconderete nella vostra casa di montagna…
Una bella schiavitù, ma necessaria a garantire la sicura conservabilità dei dati.

Il mio metodo
Per quanto mi riguarda, dopo avere elaborato il Raw lo salvo (insieme al suo “sidecar file” XMP) su tre differenti supporti: un disco fisso residente nel computer (ma non coincidente con l’unità che contiene il sistema operativo e i programmi), una unità RAID in modalità mirroring (quindi di fatto altri due dischi), collegato in rete locale via Ethernet, e un HD esterno che porto sempre con me quando esco di casa.
Poiché a me interessa soprattutto conservare i Raw, pongo una minore cura nel salvataggio e nella conservazione dei file derivati. Di solito genero un TIFF o un JPEG solo quando ne ho bisogno, quando devo soddisfare le esigenze del cliente o quando voglio inviarlo a un’agenzia di stock.
Delle immagini che ritengo più belle e utilizzabili anche in futuro genero tre file: un TIFF a 16 bit non compresso per la stampa di alta qualità, un JPEG a qualità massima, un JPEG ridotto con lato lungo di 600 pixel a 96 dpi per l’utilizzo su web. Questi file vengono salvati su un ulteriore disco esterno ad essi dedicato. Qualora queste informazioni andassero perdute non me ne preoccuperei più di tanto, dato che i Raw originali sono al sicuro.

Le alternative al disco rigido
Per funzionare, il disco rigido necessita di parti il cui funzionamento è squisitamente meccanico: il sistema di rotazione, i complessi micromeccanismi che spostano il braccetto che ospita la testina di lettura…
Tutte parti soggette a movimento, ad attrito e quindi, col tempo, ad usura.
Per evitare gli inconvenienti dell’usura (rotture improvvise con frequente perdita di dati), si fa oggi ricorso alle unità a stato solito o SSD (Solid State Drive).
Queste unità sono anche chiamate “dischi a stato solido”, ma il termine è improprio perché al loro interno non c’è nessun disco: in realtà esse utilizzano un sistema di memorizzazione dei dati basato sulla memoria flash di tipo NAND, modificando lo stato elettronico di una serie di celle di transistor.
Vantaggi: nessuna rumorosità, nessuna usura meccanica, nessuna possibilità di interferenza magnetica, elevata velocità di lettura e scrittura (fino a 50 volte più veloci di un HD tradizionale), resistenza agli urti, minore produzione di calore.
Purtroppo agli innegabili vantaggi appena elencati si affiancano alcuni limiti non secondari.
A parte il costo per bit più elevato, almeno per ora, va evidenziato il rischio di una durata teoricamente ridotta, dovuto al limite di riscrittura delle memorie flash. In altre parole, un singolo bit può essere riscritto un numero limitato (anche se elevato) di volte. Un problema che la tecnologia sembra poter risolvere a breve, ma che per ora può essere aggirato riservando le unità SSD al backup periodico e continuando ad usare gli hard disk per la gestione quotidiana.
In ogni caso i rapidi progressi del settore lasciano facilmente presagire che in un futuro non lontano i dischi rigidi potranno essere sostituiti dalle unità a stato solido.
Una risorsa recente è rappresentata dall’archiviazione online. Diversi siti offrono, a pagamento, uno spazio sui loro server, per consentire a chi si abbona al servizio di salvare una copia dei suoi dati al sicuro, lontano dallo studio o da casa, di consultarli ed elaborarli da qualunque postazione e – volendo – di metterli in condivisione.
Un sistema supersicuro? Beh, quasi sempre, tranne quando si verificano disastri a livello mondiale come il fallimento della Lehman-Brothers.
Ma che c’entra una banca con la fotografia? C’entra eccome, perché dopo il “fattaccio” un’agenzia fotografica finanziariamente collegata alla banca in oggetto chiuse inopinatamente i battenti, rendendo indisponibili i file archiviati a tutti i fotografi che – fidandosi della stabilità della rete – avevano rinunciato all’archiviazione in locale per affidarsi esclusivamente a quella online. Risultato: migliaia di scatti (e di lavoro) persi, senza alcuna certezza riguardo alle possibilità e ai tempi di recupero.
Morale: mai fidarsi di un solo sistema e sposare la filosofia della “data redundancy”.

Tutto cambia
Un problema che coinvolge tutti i supporti e le tecnologie usate per l’archiviazione elettronica è rappresentato dalla rapida obsolescenza dei sistemi hardware utilizzati per decodificare i dati registrati (lettori, drive, computer), ma anche del software che interpreta ed elabora i dati.
Da quando il mercato fotografico è finito nelle mani degli informatici nulla è più come prima e nulla può considerarsi stabile.
Se fino a venti anni fa potevamo essere certi che una Hasselblad passasse di padre in figlio, e che entrambi potessero utilizzare più o meno le stesse pellicole e le stesse tecnologie per il loro trattamento, oggi possiamo essere altrettanto certi che qualunque prodotto, anche professionale, non dura più di due o tre anni senza essere superato da un suo upgrade, quando non da un prodotto completamente nuovo.
Quanto detto vale per le apparecchiature da ripresa ma anche – e ancor più – per gli strumenti informatici (tanto hardware quanto software): chi ha recentemente acquistato Photoshop CS5 per godere delle sue nuove potenzialità creative sarà stato costretto, molto probabilmente, ad aggiornare anche il suo sistema operativo e il suo PC, per far fronte all’aumentata richiesta di risorse di sistema da parte di questo potente quanto vorace applicativo.
La continua rincorsa al sempre più grande, sempre più potente e sempre più veloce, peculiare del mondo informatico, viene malamente digerita da gran parte dei fotografi, soprattutto da quelli che hanno subito il digitale come una obbligatoria ma non necessariamente gradita innovazione, un’innovazione che – grazie a ben precise strategie di mercato – ricade, in termini di costi, sulle spalle dell’utilizzatore finale.

Il problema dei formati e una storiella illuminante
Poi c’è la questione dei formati.
Quanto dureranno il formato TIFF o il JPEG? Quanti anni, o mesi, passeranno prima che qualcuno inventi un nuovo formato di immagine molto più bello e nello stesso tempo “leggero”?
E che fine faranno i formati Raw (uno diverso dall’altro) quando un qualunque produttore di fotocamere deciderà di abbandonare la fotografia per mettersi a fare telefonini (come del resto è già accaduto)? Quale software leggerà il formato Raw generato dalle sue macchine?
E’ vero che Adobe ha tentato di lanciare sul mercato il DNG (Digital NeGative), cioè un formato Raw non proprietario che tutti potrebbero adottare. In realtà fino ad ora lo hanno adottato in pochi (ad esempio Hasselblad a partire dalla H2D, Pentax e Leica), mentre la maggior parte dei costruttori continua ad utilizzare i formati proprietari. Per carità, se proprio andasse male, se scoprissimo che il formato nel quale sono salvate tutte le nostre immagini sta per scomparire e temessimo che tra un paio di anni i nuovi software che usciranno non siano più in grado di leggerlo, potremmo sempre trasformare tutto in DNG grazie al convertitore gratuito di sant’Adobe: peccato che nella conversione la qualità del nostro file finisca per degradarsi. Di poco, per carità, però lo fa.

Adesso racconto una storiella illuminante.
Il Domesday Book è un documento che il re normanno Guglielmo il Conquistatore fece compilare nel 1086, vent’anni dopo l’invasione dell’Inghilterra, per censire le sue nuove terre a scopo fiscale. I suoi inviati registrarono tutte le proprietà di signori e contadini, “fino all’ultimo maiale”, come scrissero i cronisti di allora.
Nel 1983, il governo di sua maestà britannica affidò alla BBC il compito di digitalizzare questo documento. Furono creati due videodischi contenenti mappe interattive, filmati, descrizioni di luoghi…
Insomma, un gran bel lavoro il quale, ovviamente, fu protetto da copyright. In altre parole, chi voleva consultare l’edizione elettronica del Domesday Book doveva acquistarlo, oppure pagare i diritti alla BBC.
Peccato che dopo quindici anni questa versione digitale fosse già illeggibile: non esistevano più gli apparecchi e nemmeno i computer in grado di leggere i videodischi!
Ah, a proposito: l’originale in pergamena è ancora perfettamente leggibile, anche se sono passati quasi mille anni, e non richiede attrezzature particolari o macchine sofisticate: basta conoscere il latino. E non bisogna neppure pagare per consultarlo: chiunque può farlo gratis, dal momento che il libro è conservato in una biblioteca pubblica.

Insomma, paradossalmente sembra che la durata di un documento sia inversamente proporzionale alla complessità della tecnologia usata per produrlo (si pensi alle incisioni rupestri della preistoria, ancora perfettamente conservate).
Da tutto questo bisogna trarre un insegnamento.
L’immagine digitale ha bisogno di essere continuamente seguita e “coccolata”.
Copiate spesso le immagini da un supporto all’altro.
Duplicate tutti i CD e i DVD e rimasterizzateli almeno ogni due anni. Anzi, meglio: non usateli!
Tenete d’occhio i progressi della tecnologia e non esitate a convertire le vostre immagini nei nuovi formati, soprattutto se questi diventano standard di riferimento.
Acquistate un hard disk esterno, o meglio più di uno, su cui effettuare il backup di tutte le immagini dell’archivio.
Aggiornatelo spesso.
Ma soprattutto conservate un HD di backup in una sede diversa da quella in cui è situato il computer.
Ho visto più di un archivio (migliaia e migliaia di scatti) finire distrutto solo perché il fotografo non aveva mai effettuato un backup delle sue immagini, fidando nel fatto che un Mac non potesse rompersi.
Ricordate il Tamagochi, quell’animaletto virtuale che andava costantemente nutrito e accudito, altrimenti moriva?
Ok, l’immagine digitale è lo stesso.

Ordo rerum ordo idearum…
…sentenziavano i latini che se ne intendevano (di cosa non si sa, ma si dice così). L’ordine delle cose trascina con sé (e nello stesso tempo riflette) l’ordine delle idee.
Tradotto e adattato alla nostra realtà, significa che anche l’archivio elettronico, esattamente come quello fisico dove conserviamo i negativi e le diapositive, deve seguire precisi criteri di organizzazione semantica.
Quali criteri?
Anche in questo caso tutto dipende dagli scopi e dall’utilizzo dell’archivio.
Qui cercherò di descrivere il metodo che io seguo, e che può essere utile per chi si occupa di fotografia di luoghi e di fotografia naturalistica.
Come ho già detto, le immagini sono conservate in formato Raw se scattate con fotocamera digitale. Oltre al RAW conservo (nella stessa cartella e con lo stesso nome) il corrispondente file XMP contenente i metadati. Ogni volta che si sposta o rinomina il file Raw è necessario spostare o rinominare il corrispondente file XMP, pena la perdita delle correzioni apportate all’immagine. Usando Bridge non è necessario rinominare il file XMP.
Le foto digitali derivanti da scansione di immagini chimiche sono archiviate in formato TIFF a 16 bit non compresso.

Ogni file è caratterizzato da un nome “parlante”.
Per i paesaggi, le architetture, la fotografia turistica, il reportage urbano e la fotografia di luoghi in genere, il criterio di archiviazione prevede un codice alfanumerico congegnato come segue:
1. Parte alfabetica formata da sei lettere:
a) Iniziali del nome e cognome del fotografo. Nel mio caso, mv.
b) Sigla dello stato: it = Italia, f r= Francia, secondo i domini nazionali internet.
c) Prime due lettere del nome della regione: pi = Piemonte, si = Sicilia, rh = Rhône-Alpes. Per la Svizzera, prime due lettere del nome del cantone (zh = Zurigo). Per la Germania, prime due lettere del nome del Land (bb = Brandenburg), e così via in base alle suddivisioni amministrative dei singoli paesi.
d) Sigla automobilistica della provincia (se in Italia), numero del dipartimento (Francia), sigla del territorio comunale (Svizzera, Germania).
2. Parte numerica formata da 4 cifre progressive, da 0001 a 9999.
Per le fotografie che ritraggono animali o piante l’archiviazione prevede un codice alfanumerico di questo tipo:
1. Parte alfabetica costituita da otto lettere:
a) Iniziali del nome e cognome: mv nel mio caso;
b) Prime due lettere del regno: pi = piante, an = animali;
c) Prime due lettere della famiglia: ma = Magnoliaceae;
d) Prime due lettere del genere: ma = Magnolia;
e) Prime due lettere della specie: vi = virginiana. Pertanto un fiore o una pianta di Magnolia virginiana saranno descritti come segue: mvplmamavi; la fotografia di uno stambecco (Capra ibex, famiglia Bovidae) avrà la seguente sigla: mvanbocaib.
2. Parte numerica formata da 4 cifre progressive, da 0001 a 9999.
Il codice alfanumerico prevede soltanto lettere minuscole e nessuno spazio o altro segno tra la parte alfabetica e la parte numerica.
Questo tipo di archiviazione permette, volendo, un uso ridotto di cartelle e sottocartelle in quanto consente di trovare radunate insieme tutte le fotografie scattate in una stessa zona, o raffiguranti un singolo soggetto animale o vegetale.
In ogni caso, allo scopo di delimitare e facilitare la ricerca, raduno le immagini di una stessa specie (animale o vegetale) o di uno stesso luogo in cartelle e sottocartelle ordinate gerarchicamente (Italia – Piemonte – Torino città – Quartieri – Centro storico – Piazza Castello. Oppure: Animali – Vertebrati - Mammiferi – Bovidi – Stambecchi).
Ovviamente ci sono alternative più “tecnologiche”, applicabili però solo alle fotografie di luoghi.

Qualche suggerimento
1. Sostituire alla parte alfabetica, descrittiva del luogo, il codice ISTAT (un numero di sette cifre) o il codice catastale (una lettera e tre numeri) del comune nel cui territorio sono avvenute le riprese. Svantaggi: funziona solo per i comuni italiani. Inoltre quando si fa fotografia di paesaggio, ad esempio in montagna, non è sempre facile capire a quale territorio comunale appartiene la vetta o il ghiacciaio che si stanno fotografando;
2. Identificare il territorio con le coordinate geografiche: longitudine e latitudine. Vantaggi: funziona in tutto il mondo. Inoltre tutte le fotografie scattate in uno stesso territorio saranno automaticamente ordinate in sequenza con assoluta precisione. Svantaggio: è vero che esistono fotocamere che lo fanno, ma chi non le usa deve portarsi dietro un dispositivo GPS e ricordarsi di annotare i dati relativi alle coordinate ogni volta che scatta una foto. Improponibile.
Sul mercato esistono numerosi programmi di archiviazione, alcuni dei quali a pagamento, altri gratuiti: Picasa, AcdSee, Studioline Photobasic, o i programmi proprietari come Canon ZoomBrowser (ImageBrowser per Mac) o ancora i sistemi di archiviazione di Lightroom o Aperture presentano numerosi vantaggi.
Per quanto mi riguarda non li uso, prevalentemente perché ho iniziato a impostare l’archivio (decine di migliaia di scatti) diversi anni fa, quando questi software ancora non esistevano, e quei pochi che esistevano non erano in grado di soddisfare appieno le mie esigenze: cambiare metodo a questo punto implicherebbe una mole di lavoro impossibile da affrontare, dato che nella vita si fa anche altro. Per fortuna il mio flusso di lavoro è consolidato e vedo che funziona, per cui non sento – almeno per ora – l’esigenza di cambiare. In futuro si vedrà.
Morale: prima di impostare delle regole di archiviazione guardatevi intorno, testate diversi sistemi, sperimentateli in pratica, per poi scegliere quello che meglio si adatta alle vostre particolari e spesso irripetibili esigenze.

Quando si hanno dei clienti
Quando si lavora per l’editoria o per le agenzie di stock è importante evitare di spedire la stessa foto a due clienti diversi, dato che questo tipo di collaborazione implica di solito l’esclusiva.
Dopo avere elaborato il Raw e generato il file nel formato richiesto dal cliente, io lo conservo in una cartella nominata “Spedite a [nome del cliente]”. Se il cliente non accetta il file, questo viene distrutto (tanto è una copia). Se il cliente accetta il file, la copia viene distrutta, mentre il Raw originale (insieme al suo “sidecar file” XMP) viene rinominato, aggiungendo al nome del file il nome del cliente tra parentesi. Ad esempio: mvitaoay0073(deagostini).CR2.
In questo modo quando si fanno le successive selezioni si vede subito se un file è già stato inviato a un editore o a un’agenzia in esclusiva. Inoltre, con una semplice ricerca, è possibile visualizzare tutte le immagini inviate a questo o quel cliente.
Questo è il mio sistema, ma ovviamente ne esistono infiniti altri (ad esempio assegnare un colore o un tag particolare alle immagini già vendute). Ognuno sceglierà quello che più gli si addice.

Ordine è anche selezione!
Nel lontano aprile del 2000 pubblicai su “Nadir” un articolo dal titolo Vuoi migliorare? Distruggi!, nel quale si sosteneva la necessità di sottoporre il proprio archivio di diapositive a una drastica e impietosa selezione periodica, allo scopo di eliminare la “zavorra” per mantenere un livello qualitativo globalmente elevato.
L’archivio elettronico non fa eccezione.
A volte siamo tentati di conservare un’immagine non perfetta perché “se la lascio grande si vede che è sfocata, ma se la riduco per il web non si vede tanto”.
Non fatelo.
A che serve avere una foto che non si potrà utilizzare se non in formato francobollo?
Da che cosa volete essere rappresentati?
Da poche immagini di alta qualità e di forte impatto, o da una pletora di fotine troppo piccole per essere non solo giudicate, ma nemmeno lette con la dovuta attenzione?
Per quanto mi riguarda non ho dubbi: la mia ambizione non è quella di lasciare ai posteri un archivio gigantesco, ma di essere ricordato e identificato per poche, ma artisticamente rilevanti, immagini sublimi. Spero di farcela.

 

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